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Metodo

Esiste una specie di “Metodo ABDR” di approccio al progetto: questo non è frutto di un processo razionale né, tantomeno, di una lucida volontà di pianificare tutti i passaggi che concorrono alla definizione dell’opera di architettura. Come sappiamo, questo non sta nell’ordine delle cose. La sua natura, quella più profonda, risiede, invece, in una semplice ma quanto mai rara condizione: decenni di vita professionale, di lavoro sul progetto, trascorsi insieme.

Se proprio vogliamo definirlo, il nostro “metodo” è quindi il risultato di una lunga esperienza, vissuta prima in quattro e poi in tre, sempre circondati da una schiera di straordinari collaboratori, per un periodo ancora tutto da definire. 

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Ciò non vuol dire che gli aspetti tecnici, culturali e scientifici propri “dell’ideare architettura” siano per noi irrilevanti, e che i meccanismi che portano alla realizzazione delle opere non siano oggetto di continue riflessioni e revisioni, tutt’altro. Ma sappiamo che nel nostro caso, al di là di tutto e della consapevolezza dell’impossibilità di venirne felicemente a capo, questi non possono prescindere dagli effetti profondi della componente esistenziale, dal persistere nel tempo del fattore “vita condivisa”. Proprio a partire dall’intima, privata e sottaciuta conoscenza delle rispettive mancanze e capacità che prende corpo, trova alimento il nostro modo d’agire professionale e, infine, il nostro essere autori e architetti a tutto campo.

Taccuino di Michele Beccu

In altri termini è il quotidiano esercizio alla mediazione che ci allena e che ci porta a un equilibrato e costruttivo approccio ai differenti e spesso contraddittori fattori, questi tutti esterni, che concorrono alla realizzazione del progetto d’architettura: da quelli economici a quelli tecnici, da quelli politici a quelli culturali, da quelli amministrativi a quelli normativi, e così via…

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Insomma, è l’esercizio alla comprensione delle altrui esigenze che ci consente di fornire risposte a istanze individuali e collettive che tra loro confliggono, a trasformare i limiti personali in risorse aggiuntive, a far sì che i vincoli divengano fattori d’avanzamento del lavoro ideativo; in ultimo, che si risolva in forma ciò che all’inizio e durante il processo progettuale appare come frutto di istanze inconciliabili e – per l’architettura – potenzialmente deflagranti. Il che non vuol dire che il nostro agire consista nel ridurre il tutto a uno stato di pacifica compresenza dei diversi fattori che concorrono alla definizione dell’opera, ma che il processo da noi attivato porta alla realizzazione di una nuova figura, compiuta, autonoma e dotata di una sua specifica identità, una forma nuova.   

 Al di là dell’ostinata quanto irresoluta frequentazione degli approcci squisitamente disciplinari… questo è il “Metodo ABDR”.  

 Filippo Raimondo 

Schizzo di Paolo Desideri

Una delle questioni centrali che come architetti dobbiamo concettualmente definire è il rapporto tra il nostro lavoro di progettisti e la creatività. Che certamente non è il solo indispensabile filamento dentro il nostro codice genetico, ma certamente è il più equivocabile e, se così possiamo dire, il più scivoloso da definire. Facile infatti comprendere e definire l’ambito, certo vastissimo, di conoscenze tecniche e tecnologiche che dobbiamo necessariamente avere nelle nostre competenze. Molto più difficile, è evidente, è provare a formulare qualsiasi concettualizzazione in merito alla pur essenziale capacità creativa dell’architetto: un ambito che per sua stessa natura confina con saperi e competenze e discipline e attitudini difficilmente codificabili.   

Lever House, SOM, Ponte sul Basento, Sergio Musmeci

E forse ancora più in generale, cosa possiamo definire come creatività dentro l’attività di progettazione? A me sembra che il primo equivoco dal quale rifuggire è l’identificazione della creatività con il linguaggio architettonico. Un equivoco che discende direttamente dalla confusione tra arte ed architettura. Perché indiscutibilmente sia l’Arte sia l’Architettura vivono, muovono, usano e si fondano sull’esercizio della creatività. L’uso che le due discipline sono chiamate a farne mi sembra tuttavia diverga subito dopo la constatazione di questa presenza nello statuto di entrambe.  

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A differenza dell’Arte l’Architettura è chiamata per statuto a risolvere problemi. E dunque, in certa misura, al crescere dei problemi in campo, per numero e importanza, dovremmo imparare a far crescere la nostra capacità ad affrontarli e risolverli attraverso la creatività, a meno di non voler lasciare ad altri il compito di farlo con altri strumenti ( e schiere di ingegneri non vedono l’ora…). Ma noi architetti, a ben vedere, abbiamo questo solo formidabile strumento: la creatività e la forma. Potremmo azzardare che la creatività e la forma si devono fare carico di una sorta di responsabilità etica nei confronti del sistema complessivo del progetto. Ben oltre la “semplice” ed autoreferenziale libertà di linguaggio che quasi sempre rischia di inseguire la “stravaganza”, voglio perciò postulare, nei territori estremi della complessità, una creatività tutta spesa al “problem solving”: uno slittamento dell’orizzonte poetico, come già detto, dentro cui muove il progetto di architettura contemporaneo, che assai più di qualsiasi altra stagione storica deve rinunciare, per dirla con Felix Candela, ad ogni “extravagant architects dream”.  

Paolo Desideri 

Elaborazione di Michele Beccu

Nella pratica progettuale quotidiana, nell’affrontare sempre più frequentemente temi legati alla trasformazione dell’esistente, al rinnovamento di edifici monumentali, al confronto con il costruito recente, facciamo esperienza della distanza crescente che separa il nostro agire, gli strumenti a nostra disposizione, le tecniche, i saperi specialistici, il far riferimento alle categorie estetiche contemporanee, con il lascito architettonico e monumentale che la Città e il territorio ci consegnano. Una distanza che appare crescente, e che rischia di trasformarsi in un conflitto insanabile. 

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L’irripetibile singolarità che caratterizza il nostro patrimonio rischia di sovrastare la nostra capacità di progettare, di creare forma, se non ci misuriamo con attenzione e puntiglio con quei testi, se non ci poniamo all’altezza di quella singolarità, come operatori altamente qualificati, capaci di esercitare il progetto con consapevolezza, secondo una concezione organica e unitaria dei manufatti da riconfigurare. Solo così potremo ricomporre quel conflitto, distendere e allentare quella tensione, senza rinunciare all’identità del nostro percorso, e alla nostra autorialità di architetti.

Dettaglio del Teatro dell’Opera di Firenze

Dentro il labirinto del nostro mestiere, si delinea quasi una nuova natura del Progetto di Architettura; sensibilità contestuale, complessità tecnica delle procedure, visione olistica del progetto, capacità figurativa, sembrano costituire aspetti di una “nuova naturalezza” del progetto. Come se questa antica pratica di trasformazione della realtà fisica avesse subito una sottile mutazione, una inedita varietà fenomenica di temi da affrontare, ma un centro poetico inamovibile, la forma architettonica.

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Un principio di forma che fa discendere valori compositivi da semplici operazioni di sottrazione di segno, o da accorte traslazioni o modificazione di componenti tecniche. Rendere espressivo l’uso del vetro, riattualizzare materiali antichi, appropriarsi di tecniche capaci di modificare, senza snaturarla, la filiera produttiva di alcuni materiali. Fare i conti con il prepotente protagonismo degli specialismi, dialogare con le ditte produttrici, e ascoltare la saggezza degli artisti.  

 Michele Beccu 

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